Benvenuti nel regno della parola

Progetti, comunicazione ed eventi, articoli e curiosità

Dalle rive del lago di Garda... tutto ciò che amo fare, per lavoro e per passione!

"Le parole sono innocenti.
Siamo noi che, usandole senza fantasia, le rendiamo odiose". (Umberto Eco)

© È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo sia effettuata, dei contenuti e delle immagini presenti in questo blog, se non autorizzata. Sono ben accetti pareri, consigli e segnalazioni utili.

domenica 21 febbraio 2016

Intervista a Mario Melazzini. Quando la sofferenza diventa speranza e forza

Pubblico in questo post la mia intervista integrale, realizzata a inizio febbraio al dottor Mario Melazzini per il settimanale Verona Fedele e pubblicata sul numero di questo venerdì 19 febbraio 2016. 


Arriva puntuale in una sala gremita della Biblioteca di Sirmione (venerdì 5 febbraio). Sulle medesime sponde del lago di Garda, dove anni fa conobbe attraverso i suoi scritti la venerabile Benedetta Bianchi Porro, studentessa di medicina come lui, affetta da una malattia rara. Come lui. Il dottor MarioMelazzini, medico oncologo, da 14 anni soffre di una patologia rara, neurodegenerativa: la Sla, acronimo di sclerosilaterale amiotrofica. Sua compagna di vita da quando, il 17 febbraio 2002, il suo piede sinistro non riuscì ad agganciare il pedale della bicicletta per affrontare la corsa quotidiana.
Padre di tre figli e già nonno, Melazzini non si è arreso alla malattia: oggi è anche assessore alla ricerca e all’innovazione della Regione Lombardia, al timone di Arisla (fondazione italiana per la ricerca sulla Sla) e il dicembre scorso è stato nominato dal ministro Beatrice Lorenzin presidente dell’Agenzia italiana del farmaco, Aifa
Il dottor Mario Melazzini a Sirmione
Nonostante la fatica del viaggio in auto da Milano, il medico conquista da subito la platea con il suo sorriso rassicurante, la voce calma e quella forza straordinaria che sgorga dalla speranza, ispiratrice del suo ultimo libro (“Lo Sguardo e la Speranza. La vita è bella, non solo nei film”, Edizioni San Paolo, 2015) e della sua idea di rapporto medico-paziente.
«Ho imparato dai miei pazienti che inguaribile non è sinonimo di incurabile – afferma Mario Melazzini – e che la dignità sta nell’occhio del curante: per questo parlo sempre di sguardo. Oltre alla medicina, anche la speranza è uno strumento di cura e di vita, e lo sguardo dei familiari, degli amici, dei colleghi può essere espressione di fiducia e di speranza: aiuta ad affrontare meglio la malattia, la solitudine, la sofferenza».
Nonostante la malattia, ha accettato l’ennesima sfida il dottor Melazzini: mettersi alla guida di un mercato che muove 30 miliardi di euro e che decide con quali medicine curarsi. «Andare in giro a parlare – continua il neopresidente di Aifa – mi pesa molto, più dal punto di vista emotivo che fisico. Per prepararmi ad uscire ci metto circa tre ore e mezza, la mattina; la cravatta mi sta scomoda, le scarpe mi fanno gonfiare i piedi, e poi c’è la notte da affrontare… ma questi incontri sono momenti di carica propulsiva che mi danno grande energia».
Biblioteca di Sirmione
L’incarico come presidente di Aifa dà, ancora una volta, una svolta alla sua vita. Quali sono gli obiettivi della sua “nuova battaglia”?

«Credo che ci troviamo di fronte a una sfida importantissima. In un contesto particolare, in cui il costo dei farmaci è in crescita, diventa necessario promuovere una nuova governance del farmaco. L’obiettivo è la sostenibilità della spesa farmaceutica alla luce dei nuovi farmaci innovativi. Obiettivi importanti che Aifa sta già perseguendo grazie all’impegno dell’attuale direttore generale Luca Pani».

Lei ha parlato spesso dell’importanza di bilanciare l’efficacia delle cure con la qualità di vita dei pazienti e i costi. Come si raggiunge, a suo avviso, questo equilibrio? Quando è opportuno fermarsi per non sconfinare in “accadimento terapeutico”?

«È un tema delicato quello dell’equilibrio e della correttezza appropriata nella somministrazione di farmaci, anche a malati terminali. Fermarsi non significa non voler più offrire le terapie, ma garantire le cure, la presa in carico e sollecitare un confronto sulla necessità di dover bilanciare al meglio l’efficacia della terapia con la qualità di vita del paziente. Un equilibrio che ritengo si possa raggiungere mettendo al centro delle proprie azioni la persona e suoi bisogni. Da tempo sostengo fermamente che sia fondamentale garantire un percorso di presa in carico sia del paziente che dei suoi familiari, per assicurare la continuità assistenziale. È inoltre importante il ruolo che le istituzioni, insieme al mondo sanitario e sociosanitario, devono ricoprire affinché si abbia la certezza concreta che nel nostro Paese ognuno riceva trattamenti, cure e sostegni adeguati
La medicina, i servizi sociosanitari e, più in generale, la società forniscono risposte ai differenti problemi posti dalla malattia, dal dolore e dalla sofferenza: risposte che devono essere implementate e potenziate. Bisogna evitare che certe correnti di pensiero trasformino la persona malata e/o con disabilità in un peso e costo sociale: un’idea che aumenta la solitudine dei malati e delle loro famiglie, introduce nelle persone più fragili il dubbio di poter essere vittima di un programmato disinteresse da parte della società, e favorisce decisioni rinunciatarie. Credo che la medicina e la scienza, così le persone che vi operano, debbano intervenire per eliminare o alleviare il dolore delle persone malate o con disabilità e migliorare la loro qualità di vita, evitando ogni forma di accanimento terapeutico. Questo conferma il senso della nostra professione medica».

Cosa manca secondo lei, in maniera sostanziale, in Italia per dare più dignità ai malati di Sla e di altre patologie altamente invalidanti?

«Gli operatori sanitari dovrebbero essere più consapevoli di ricoprire un ruolo fondamentale nel percorso di cura di ogni malato e da qui farne derivare un sentimento di profonda partecipazione. È necessario sviluppare sempre di più nel rapporto medico-paziente un forte senso di empatia che porta al processo di condivisione del percorso terapeutico assistenziale. La persona deve diventare il “motore” centrale di questo percorso affinché si avvii un reale cambiamento, che può divenire davvero epocale. Bisogna porre sull’altro uno sguardo nuovo, che consente di leggere le sue reali necessità ed essere così in grado di formulare delle risposte concrete ed efficaci. Si tratta di uno sguardo aperto, che può dare dignità e sentirla restituita. Uno sguardo che io stesso ho imparato a conoscere e che mi ha permesso di comprendere la mia malattia». 

La sua determinazione a vivere una vita normale e felice, nonostante la malattia, trae radici nella fede. Come spiega questa sua ritrovata speranza ad altri ammalati?

Nuovo libro di Mario Melazzini
«Sono convito che il dolore e la sofferenza, sia fisica che psicologica, in quanto tali, non sono né buoni né desiderabili (lo dico da medico, uomo e paziente), ma non per questo sono senza significato. Dovremmo riuscire a farne tesoro, farli diventare un valore aggiunto al nostro percorso di vita. Può sembrare paradossale, ma un corpo nudo, spogliato della sua esuberanza, mortificato nella sua esteriorità fa brillare maggiormente l’anima, ovvero il luogo in cui sono presenti le chiavi che possono aprire, in qualunque momento, la via per completare nel modo migliore il proprio percorso di vita. A me è successo, e grazie alla malattia, vivo ogni giorno, come uomo, medico e malato, con gioia e umiltà, l’infinita bellezza dell’esistere. Certamente nel mio percorso di accettazione anche la fede e la preghiera hanno giocato un ruolo fondamentale: sono servite a rafforzare sempre di più in me la speranza, che io definisco come quel sentimento confortante che provo quando intravedo con l’occhio della mia mente un percorso che mi può condurre a una condizione migliore».

Nella presentazione del suo libro ha parlato della venerabile Benedetta Bianchi Porro, ha citato anche Giobbe e Sant’Agostino. Chi nella Parola le ha donato o le dona maggiore conforto?

Un'immagine della venerabile sirmionese
Benedetta Bianchi Porro,
per la quale è in corso l'iter di beatificazione
«Ho incontrato queste figure nel mio percorso di accettazione della malattia e ognuna di esse, in momenti diversi e per ragioni diverse, mi ha donato conforto, mi ha aiutato a trovare le risposte alle mie domande e a intraprendere un percorso nuovo di vita. Tra le tre figure, mi piace ricordare Giobbe: l’incontro con lui mi ha permesso di accettare il limite e trasformarlo in speranza, in opportunità, facendolo diventare uno strumento di vita quotidiana. Fondamentale è stata per me la frase: “Ti ho conosciuto per sentito dire, ma ora ti ho incontrato”. Così ho avuto la certezza dell’incontro reale con il Mistero.
Penso ci sia sempre un significato a ciò che ci accade e che può essere sempre vissuto come un dono, anche se è comprensibile che all’inizio dell’esperienza del percorso della malattia vengano poste con un po’ di rabbia. Quanto vissuto come malati, come pazienti, è sempre un dono che ci viene offerto».  

Oltre lo sguardo, la speranza, che diviene anche terapia e nel suo caso è un punto di arrivo e di ripartenza…

«Dopo la diagnosi di malattia il mio pensiero era fisso a come la Sla mi avrebbe progressivamente reso prigioniero del mio corpo. I primi due anni di malattia sono stati di buio, mi rifiutavo di accettare questa malattia rara e devastante, di fronte alla quale la scienza medica era impotente. Mentre allontanavo tutti gli affetti, continuavo a lavorare tra i miei pazienti e cercavo di pianificare razionalmente il pensiero di smettere di vivere in quelle condizioni. 
Oggi mi rendo conto che in quel periodo vivevo continuando a guardare al passato, alle cose che non avrei più potuto fare, come andare in bicicletta e arrampicarmi sulle montagne che ho sempre amato. In quei momenti difficili, per provare a me stesso l’insuperabilità della mia condizione, mi sono rifugiato per un lungo periodo di solitudine proprio tra quei monti che amavo e che in quel momento mi davano dolore. Lì mi sono ritrovato. A poco a poco qualcosa è cambiato in me e ho capito che nonostante dovessi fare i conti ogni giorno con il limite, avrei potuto aspirare ancora a una vita piena e realizzata. Così la Sla nel tempo è diventata essa stessa esperienza di vita: la consapevolezza del presente, da dolorosa memoria e causa di grande tormento, è diventata fonte di esperienza e di forza. Questo per me è vivere nella speranza, grazie alla quale ora posso volgere uno sguardo nuovo su ciò che accade, sulle persone che mi stanno vicino e sulle esperienze che affronto, potendone cogliere il vero significato».

Francesca Gardenato

Nessun commento:

Posta un commento